Il paradosso delle organizzazioni: sempre più framework agili, sempre meno agilità autentica. Ma quanti sono disposti al vero cambiamento culturale?
Quello che segue è la trascrizione, parzialmente ri-editata, di una lezione tenuta ad un MBA post laurea sui temi di change management ed agile tenuta lo scorso anno, mi ero riproposto di pubblicarla prima o poi e durante le “pulizie di Pasqua” di questo blog ho finalmente completato l’articolo (che altrimenti sarebbe rimasto qui a stagionare ancora un po’).
Nel labirinto contemporaneo della gestione aziendale, l’incertezza si manifesta come unica costante. In questo contesto, l’agilità non rappresenta meramente una metodologia o un insieme di pratiche operative, quanto piuttosto una filosofia trasformativa che ridefinisce profondamente il nostro approccio all’organizzazione, all’innovazione e alla creazione di valore.
Ma cosa significa veramente essere “agili” in un ecosistema aziendale sempre più complesso e imprevedibile? E soprattutto, quanti stanno davvero praticando l’agilità e quanti, invece, si limitano a indossarne la maschera mentre perpetuano vecchi paradigmi sotto nuove etichette?
Le radici filosofiche dell’agilità: tra orologio e nuvola
L’agilità affonda le sue radici in una comprensione profonda della natura dei problemi che affrontiamo quotidianamente. Karl Popper, con la sua illuminante distinzione tra “problemi orologio” (deterministici, prevedibili) e “problemi nuvola” (complessi, emergenti), ci offre una chiave di lettura straordinariamente rilevante per il contesto contemporaneo.
Il Manifesto Agile, con i suoi quattro valori fondamentali, rappresenta questo cambio di paradigma: il riconoscimento che lo sviluppo di prodotti e servizi opera in un continuum tra ordine e caos, tra prevedibilità ed emergenza. Non è forse ironico come, nella nostra corsa verso metodologie sempre più codificate, rischiamo di trasformare in “orologi” quelli che sono essenzialmente “problemi nuvola“?
Quando il Manifesto afferma “Gli individui e le interazioni più che i processi e gli strumenti“, riconosce implicitamente che le persone sono “problemi nuvola” – imprevedibili, creative, in continua evoluzione – mentre i processi sono “problemi orologio” – meccanici e deterministici. Questa dicotomia si ripete in tutti i valori del Manifesto: il software funzionante (emergente) versus la documentazione esaustiva (strutturata); la collaborazione (fluida) versus la negoziazione contrattuale (rigida); la risposta al cambiamento (adattiva) versus l’aderenza al piano (predefinita).
In oltre vent’anni di esperienza nel settore, ho visto innumerevoli organizzazioni proclamarsi “agili” pur rimanendo fondamentalmente ancorate a una mentalità meccanicistica. Mi chiedo spesso: quante riunioni giornaliere ritualistiche, quante lavagne Kanban perfettamente ordinate e quanti sprint meticolosamente pianificati servono per mascherare l’assenza di un vero cambiamento culturale?
L’Orchestrazione della complessità: la sinfonia dell’innovazione
Nel modello Cynefin di Dave Snowden, l’agilità trova la sua collocazione naturale nei domini “complesso” e “complicato” – dove causa ed effetto non sono immediatamente evidenti e richiedono approcci di “probe-sense-respond” o “sense-analyze-respond”. Questa consapevolezza ci porta a una considerazione fondamentale: l’agilità non è un framework rigido da applicare indiscriminatamente, ma un mindset che ci permette di navigare la complessità con intelligenza e disciplina.
Come scrive Dave Thomas, l’agilità può essere sintetizzata in quattro semplici passaggi:
- Trovare dove siamo
- Fare un piccolo passo verso l’obiettivo
- Adattare la nostra comprensione in base a ciò che abbiamo imparato
- Ripetere
E quando ci troviamo di fronte a più alternative che offrono approssimativamente lo stesso valore, “scegliere il percorso che rende più facile il cambiamento futuro.” Una semplicità disarmante, non trovate? Eppure, quante organizzazioni preferiscono complicare ciò che potrebbe essere elegantemente semplice?
Immaginate un’orchestra sinfonica. Ogni musicista non solo conosce la propria parte, ma sa esattamente come e quando integrarsi con gli altri. Il direttore non controlla ossessivamente ogni movimento, ma guida, suggerisce, corregge. Questa è l’essenza del management agile: non un controllo dall’alto, ma un’armonia emergente da principi condivisi e visione chiara.
La governance aperta: un nuovo paradigma decisionale
Nel contesto dell’agilità manageriale, la governance aperta emerge come elemento cruciale. In un’epoca in cui la vita media delle aziende è crollata da 67 a 15 anni nell’ultimo secolo, diventa imperativo ripensare i modelli decisionali tradizionali. Eppure, nonostante l’evidenza del fallimento dei vecchi modelli, continuiamo spesso a perpetuarli sotto nuove denominazioni.
Una Governance Aperta può trasformare un’organizzazione in diversi modi fondamentali:
- Decentralizza il processo decisionale, migliorando la capacità di reazione ed evoluzione dell’organizzazione
- Consente alle leadership di emergere in base alle competenze effettive, non a gerarchie predefinite
- Permette all’organizzazione di prendere le migliori decisioni possibili coinvolgendo le persone più adatte per ciascuna situazione
- Sviluppa nelle persone la competenza decisionale, che richiede allenamento costante
In questo contesto, diventa fondamentale sviluppare un framework decisionale condiviso che permetta di scegliere lo strumento più adatto in base a parametri quali l’impatto della decisione, il tempo disponibile e il numero di persone coinvolte. Perché, come recita uno dei principi della governance di Medium, “un buon processo decisionale implica allineamento, non consenso“.
La differenza non sta nelle persone, ma nei sistemi decisionali. Ma quante organizzazioni preferiscono la rassicurante illusione del controllo dall’alto piuttosto che l’efficacia dell’intelligenza distribuita?
La danza tra output e outcome: il cuore della creazione di valore
Una delle transizioni più significative nel pensiero agile riguarda lo spostamento dell’attenzione dagli output (ciò che produciamo) agli outcome (l’impatto che generiamo). Questa è quella che potremmo chiamare “La Trappola dell’Artigiano“: la seduzione della perfezione tecnica che ci fa dimenticare il vero scopo del nostro lavoro.
Il valore non risiede nelle caratteristiche tecniche di un prodotto, ma nel suo impatto sul business e, in ultima analisi, sulla vita delle persone. Non si tratta semplicemente di consegnare progetti nei tempi previsti, ma di generare un valore tangibile e significativo. Questo valore si manifesta in diverse dimensioni:
- Valore percepito: l’esperienza dell’utente, l’usabilità, il significato
- Valore economico: ROI, efficienza, crescita
- Valore organizzativo: apprendimento, evoluzione, innovazione
- Valore sociale: impatto ecosistemico, effetti su stakeholder e comunità
Nella mia esperienza, questa transizione da output a outcome rappresenta una delle sfide più profonde per le organizzazioni tradizionali. Richiede non solo nuove metriche e processi, ma un autentico cambio di paradigma culturale. Ma quante organizzazioni sono davvero disposte a intraprendere questo viaggio trasformativo, e quante preferiscono rimanere nella zona di comfort delle metriche tradizionali, anche quando queste non catturano più il valore reale creato o distrutto?
L’empirismo: il cuore pulsante dell’agilità
Al centro dell’approccio agile troviamo l’empirismo: non una semplice filosofia, ma un metodo strutturato di apprendimento attraverso l’esperienza. Questo si manifesta attraverso tre pilastri fondamentali:
- Trasparenza: la realtà del progetto deve essere visibile e condivisa
- Ispezione: l’osservazione costante come strumento di apprendimento
- Adattamento: la capacità di modificare approccio basandosi sulle evidenze
L’empirismo ci insegna che in contesti complessi, l’illusione di poter prevedere e controllare tutto è particolarmente seducente ma fondamentalmente errata. La realtà è emergente, l’ordine nasce dall’adattamento, gli errori sono opportunità di apprendimento e l’esperienza, non il piano, è la nostra guida più affidabile.
Verso un’agilità autentica
In definitiva, l’agilità non è ciò che facciamo, ma come lo facciamo. Non è un certificato da appendere al muro, ma un viaggio continuo di scoperta e adattamento. Non è una panacea universale, ma un approccio contestuale che richiede intelligenza, disciplina e una profonda comprensione dei valori umani.
Come affermava Royce (autore di Waterfall) già nel 1970, i cicli di feedback sono essenziali in qualsiasi processo complesso. Il paradosso è che il “buon processo” appare spesso disordinato, poiché riflette la natura reale dei problemi che affronta.
Ecco perché i framework standardizzati spesso falliscono: cercano di mappare problemi “nuvola” in problemi “orologio”, ignorando la natura fondamentalmente complessa e emergente dell’innovazione umana. Come ho potuto osservare personalmente in numerosi contesti organizzativi, quando le pratiche agili vengono adottate come ricette da seguire pedissequamente, senza comprenderne i principi sottostanti, producono risultati mediocri o addirittura controproducenti. È come indossare la maglia di una squadra di calcio pensando che questo ci renda automaticamente dei campioni.
In un’epoca di incertezza crescente, l’agilità ci offre non la promessa illusoria del controllo totale, ma gli strumenti per navigare la complessità con grazia, efficacia e un profondo senso di scopo, trasformando non solo i processi e i prodotti, ma anche le persone e le culture, creando organizzazioni più umane, adattive e significative.
Come diceva Dave Thomas, “Agile non è ciò che fai. Agilità è come lo fai.” E in questa semplice distinzione risiede tutta la differenza tra una trasformazione autentica e l’ennesima moda manageriale destinata a svanire.
Se vuoi approfondire ulteriormente iscriviti al corso sugli OKR che terrò prossimamente.