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di tutto un po' Entrepreneurship

Con te non ci lavoro!

Ovvero il piccolo vademecum su come scelgo i collaboratori

Partiamo dal principio [chiudete gli occhi ed immaginatevi un flashback con effetto ondulatorio…], ho iniziato a lavorare a cavallo tra i 16 e 17 anni d’estate come commesso di un negozio di informatica, per la precisione di videogiochi. Era il periodo della nuova generazione di console, a cavallo con l’arrivo della prima Playstation e, successivamente, del Nintendo 64. L’umanità che si presentava tutti i giorni alle porte del negozio era la più variegata e particolare. Imparai ad avere pazienza e trattare tutti con un sorriso (anche se spesso era più un ghigno di disperazione). Un paio d’anni dopo ero responsabile del negozio, gestivo con una certa autonomia fornitori e clienti e coordinavo, lavorando come loro pari, un piccolo team di tecnici per fare assistenze in giro.

L’esperienza di lavorare con altre persone mi piacque molto, ma sentivo che mi mancava qualcosa, un po’ perché non partecipavo direttamente alla ricchezza che stavo creando e un po’ perché, in fondo, l’autonomia che volevo era molta di più.

Ecco perché, nella piena bolla di internet ed all’età di 22 anni, aprii la mia prima azienda. Avventura durata, per me, solo un paio d’anni ma che mi ha insegnato quali erano i valori che volevo perseguire in azienda e quali no.

Preso un anno sabbatico per laurearmi ho poi intrapreso la carriera da freelance per circa 10 anni lavorando in diversi campi dell’informatica (dalla logistica all’editoria, dallo sviluppo puro a consulenze su scalabilità ed architetture per il web) ed apprendendo il lavoro di organizzatore di conferenze e relatore. Non nascondo che gli anni da freelance siano stati molto divertenti, il periodo era (ed è tutt’ora) uno dei più rosei per chi come me sguazzava nel mondo dell’IT e soprattutto ho imparato cosa significa lavorare su progetti importanti insieme a collaboratori, partner e clienti ed ho avuto la fortuna di veder nascere il team con cui successivamente avrei aperto la mia attuale azienda, ideato.

Oggi ho oltre 25 dipendenti, un paio di aziende partner e 4–5 freelance che si alternano su diversi progetti. Ed ogni volta che ci guardiamo attorno per scegliere un nuovo collaboratore cerco di far tesoro di tutte le esperienze lavorative che ho vissuto nei vari ruoli da dipendente, freelance ed imprenditore.

Queste esperienze, e molte altre, mi hanno formato come professionista facendomi apprendere che cortesia ed educazioni sono un obbligo, anche se non tanto scontato, che avere il coraggio di dire quello che si pensa è indispensabile per essere professionali, che è importante avere l’onestà intellettuale di ammettere i propri errori e che è importante mettersi nei panni della gente per capire il motivo dietro a determinate richieste (anche se possano sembrare folli).

Da queste esperienze ho anche imparato con chi voglio lavorare e, molto più importante, con chi NON voglio lavorare.

Il video del talk al Codemotion 2017

Il posto del freelance

Una cosa che ho imparato ad apprezzare sono i freelance che sanno stare al loro posto, questo posto però non è come molti pensano dietro al cliente. Non servono professionisti fedeli come cagnolini che aspettano il biscottino del “permesso a fatturare”. Bensì il posto di un lavoratore autonomo è di fronte al cliente, con la capacità di esprimere il proprio parere e la serietà di articolarne le motivazioni.

La giornata lavorativa

Se mi viene venduta una giornata di lavoro, esigo una giornata di lavoro. Significa che mi aspetto che l’attività lavorativa inizi e sia condotta da una persona possibilmente riposata, che le interruzioni per “mettere a posto X per cliente Y” non ci debbano essere (o che siano molto sporadiche) e che il collaboratore faccia veri pranzi e, stacchi quando la giornata lavorativa è conclusa. Gli hero coder che fanno nottate in bianco per far vedere quanto lavorano sono dannosi, cerco professionisti che abbiano la mente acuta e sveglia per risolvere i task assegnati nel migliore dei modi. Se poi si ha l’abitudine di fare 16h di lavoro al giorno, vendendo 2 giornate di lavoro a due clienti diversi… va persa. E’ una mancanza di rispetto per il team con cui il freelance lavora, con l’azienda, con me ma anche con tutti gli altri clienti. Senza contare che, da un punto di vista meramente economico, non ti sto pagando affinché tu risolva i problemi a qualcun altro.

Quindi, forse, la cosa più importante è capire “chi ha precedenza”: sono IL tuo cliente di fascia alta, o sono uno dei tanti? E se lavori per me, io vorrei pagare 6/8 ore gg di lavoro non interrotto. Ma questa protezione spetta a te.

Il valore rilasciato, deve combaciare con quello fatturato

Se viene scelto un freelance per fare una attività particolare è perché c’è bisogno di una specifica competenza. Se pago un collaboratore in proporzione più di un dipendente senior non è perché mi aspetto solo la stessa capacità produttiva, ma perché mi aspetto, soprattutto, che venga portato al progetto ed al team un valore aggiunto dato dalla sua esperienza e che questa esperienza sia trasmessa costantemente.

La prima impressione è importante

Riceviamo moltissime email con proposte di collaborazioni. Alcune scritte senza guardare la grammatica, la punteggiatura o anche gli errori di battitura. Altre, quelle che più ci danno fastidio, sono quelle dove ci viene detto che siamo una webagency (non lo siamo) e ci viene allegato un sito/curriculum comprato da ThemeForest (o simile) con case studies tutti uguali ricchi di lorem ipsum. Se la prima tipologia di errori è, in qualche modo, accettabile non posso dire lo stesso per la seconda tipologia. Proposte fatte senza aver minimamente studiato (ma anche solo inquadrato) il cliente ed il mercato che rappresenta vengono scartate a prescindere e lasciano terra bruciata sotto i propri piedi.

Aperto di vedute, pronto al confronto

E’ prassi fare code review durante progetti particolarmente ostici per condividere le motivazioni dietro a determinate implementazioni ed allineare il team. Se ti senti attaccato personalmente quando ti viene chiesto il perché di una determinata scelta forse c’è un problema di fondo. Lavorare con un freelance implica non solo fiducia reciproca ma soprattutto trasparenza e capacità di confrontarsi nelle decisioni prese. Non è il tuo codice, è il nostro codice.

Investiamo in chi investe in se stesso

In diverse occasioni ci siamo ritrovati a sentire scuse come: “eh, questo computer non è il mio… non conosco bene il sistema operativo…”, “sono mesi che dovrei aggiornare/rimettere in sesto/comprare un nuovo computer ma non trovo mai il tempo di farlo” o anche “non ho mai studiato X perché non l’ho mai ritenuto utile per il mio lavoro”. Sono tutte scuse e, per di più, sono scuse che denotano una scarsa professionalità nell’aggiornarsi professionalmente e nel lavorare in condizioni di lavoro ottimali per la propria produttività. Fare lo sviluppatore con un laptop vecchio di 5–6 anni significa rilasciare più lentamente il proprio codice, non poter usare agevolmente macchine virtuali o IDE di ultima generazione o semplicemente, rischiare da un momento all’altro la morte di un dispositivo ormai logorato. Un lavoratore autonomo deve investire in se stesso e nelle proprie attrezzature, perché proprio queste ultime divengono il veicolo di trasmissione delle sue competenze.

Non cerchiamo un dipendente

O meglio, se stiamo cercando un freelance, non è venuto in mente che probabilmente lo facciamo perché ci mancano competenze su qualcosa in particolare relativo ad uno specifico progetto? E che FORSE poi, queste competenze, non ci serviranno una volta terminata l’attività? Un bravo libero professionista deve sapersi gestire il tempo in modo da mantenere le proprie attività di networking ed avere sempre un paio di clienti attivi. Occupare il 100% del proprio tempo per un singolo cliente significa che in realtà la scelta professionale che si vuole perseguire è quella del dipendente, non quella del libero professionista. Diventa anche opportuno avere l’onestà intellettuale di chiedere al cliente se è interessato all’assunzione.

Remote Working solo a chi se lo merita

Ormai lavorare in una azienda diffusa è abbastanza comune, o almeno lo è nel ramo del knowledge work. Noi stessi incoraggiamo questo concetto spronando i dipendenti a prestare il proprio servizio da spazi di coworking o da altre aziende, come ospiti. Questo però non significa poter fare remote working in orari improbabili o in strutture inadeguate. Ad esempio se il lavoro richiesto necessita di confronto continuo con il team bisogna innanzitutto valutare se la propria connessione sia idonea a consentirlo e se l’ufficio in cui si risiede è sufficientemente silenzioso o insonorizzato per permettere lo svolgimento di lunghe sessioni di call. Situazioni quali: ADSL ai limiti del ridicolo, la mancanza di un supporto hardware ottimale, prime tra tutte le cuffie con riduzione del rumore, sono solo alcuni esempi che esprimono l’impossibilità di lavorare da dove si vuole.

Ogni cosa al suo tempo

È facilmente intuibile per quale motivo alcuni freelance facciano questa scelta professionale, innanzitutto la totale autonomia nel gestire il proprio tempo di lavoro. Il voler fare il remote worker è certamente un privilegio che mai deve impattare negativamente sul lavoro dell’intero team. Forzare i propri ritmi o allungare il ciclo del feedback perché si è abituati a lavorare in notturna non facilita il lavoro in un gruppo, anzi lo rallenta e rischia di inficiarne la qualità, con ricadute disastrose. Ecco perché abitudini come lavorare di notte, da soli o nei weekend non sono viste di buon occhio dalle aziende soprattutto da quelle realtà che cercano una competenza particolare da inserire nel team.

In sostanza…

In sostanza alle aziende non piacciono i mercenari del codice ma cercano professionisti che sappiano portare valore aggiunto in quello che fanno, che abbiano voglia e capacità di aggiornarsi costantemente e che sappiano lavorare con le persone, anche da remoto, con atteggiamento costruttivo.